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Il ricordo: “Ho conosciuto Sepulveda a Torino insegnandomi a osare e… volare”

VARESE, 16 aprile 2020-di SARA MAGNOLI-

La memoria. Era il tema del Salone Internazionale del Libro di Torino del 2011. Memoria: il seme del futuro.

Il 13 maggio del 2011 era un venerdì, secondo giorno della grande manifestazione letteraria, quell’anno. Luis Sepúlveda indossava una camicia con alcune enormi foglie disegnate sopra, foglie che, ricordo, a me avevano fatto venire in mente quelle che la scimmietta agita nel cartone animato del Libro della Giungla per dare sollievo a re Luigi in una sequenza indimenticabile.

Sedeva in uno spazio appena liberato da una presentazione, in attesa di iniziare quella del suo “Ritratto di gruppo con assenza” che l’anno prima aveva pubblicato in Italia per Guanda e che si sarebbe svolta in uno spazio davanti a quello, molto più grande. Sul tavolo accanto a dove si era seduto era appoggiato un cappello di paglia.

Eh sì, era proprio lui, era proprio Sepúlveda, e attorno non c’erano, in quel momento, code di lettori. Com’è che aveva scritto? Cos’è che diceva Zorba? “Vola solo chi osa farlo”. Beh, io volare nel senso stretto della parola no, ma quando si è in mezzo ai libri e alla lettura le metafore e le immagini sono padrone, anche delle parole. E allora oso. E volo. A chiedergli un autografo sul libro che sta per presentare e che ho in mano. E a chiedergli anche se possiamo fare una foto insieme e se posso pubblicarla sul giornale accanto al mio articolo.

«No». La foto. No insieme o no sul giornale?, volo e oso ancora. E il no diventa un sì, come se fosse stato un gioco, come se fosse l’inizio di un racconto.

In queste settimane, dopo che alcuni giornali avevano riportato la smentita della moglie, esattamente un mese fa, che lo scrittore, colpito dal coronavirus, fosse in coma, e in assenza di ulteriori aggiornamenti, tutti noi lettori, sì, credo davvero tutti, abbiamo sperato in un miglioramento. Lento, magari, ma costante.

E invece oggi la notizia che Luis Sepúlveda non ce l’ha fatta, che questo insidioso nemico che sta cambiando il nostro modo di essere se l’è portato via. Che di lui ci restano gatti che insegnano a volare a gabbianelle e gatti amici dei topi, vecchi che leggono romanzi d’amore, diari di killer sentimentali, balene che narrano di sé, cani che insegnano la fedeltà ai bambini, lumache che scoprono l’importanza della lentezza. Ma non ci resta più lui, fisicamente.

Ci resta la sua memoria. Non solo memoria di lui come grande scrittore, come uomo che ha dato voce agli oppressi e ci ha donato pagine di prosa che sono e resteranno sempre poesia. Ma anche proprio memoria delle parole con cui si è fatto conoscere, memoria delle parole che ci ha lasciato.

Presentando “Ritratto di gruppo con assenza” a Torino quel 13 maggio 2011 in cui l’ho visto, ci ho anche scambiato qualche parola oltre a riuscire a scattarci quella foto che ho avuto il permesso anche di pubblicare accompagnando l’articolo e a catturarmi il suo autografo “con simpatia”, aveva prima accennato al libro che avrebbe pubblicato successivamente, quelle “Ultime notizie dal sud” accompagnate dalle fotografie di Daniel Mordzinski. Dicendo che il personaggio principale era la Patagonia, «la Patagonia che hai amato e che è cambiata, è diventata diversa e la gente ha fatto di te il cronista della sua memoria».

Sì, aveva detto così: «cronista della sua memoria». E la memoria era atto di amore e di affetto nato da tanti viaggi in questa terra dai quali già aveva preso vita “Patagonia Express”.

E anche “Ritratto di gruppo con assenza”, di cui parlò affascinando, quasi la narrazione davanti al pubblico fosse un libro dal libro, era una memoria, univa forme di letteratura giornalistica «nel senso di letteratura sostenuta dalla realtà, pur con il mio punto di vista personale», partendo da un reportage che aveva visto, fatto nel 1988, che conteneva anche una foto di bambini in un quartiere molto povero di Santiago del Cile. E quando nel 1990, anno in cui finì l’esilio a cui la dittatura di Pinochet l’aveva condannato, potendo viaggiare volle andare in Cile a trovare sua madre, Sepúlveda volle cercare quel gruppo che aveva visto in foto due anni prima, per fare loro un’altra fotografia. «Era un gruppo di sei ragazzi, ma due erano morti, assassinati dalla dittatura», e con la fotografa tedesca che lo accompagnava «abbiamo fatto una foto, ma lasciando un buco dove c’erano quei due ragazzi nella prima foto. Tornato da questa esperienza, ho scritto quel reportage sui due bambini vittime della dittatura. L’ho ritrovato, era una parte del mio passato che non ricordavo, e ho deciso di pubblicarlo senza cambiare nulla».

Ricerca di destini personali e della storia di un Paese. Ricerca che diventa memoria.

Una memoria che questo grande scrittore ha affidato ai suoi libri e dunque ai suoi e loro lettori. A tutti noi. Che lui, nella nostra memoria, l’avremo sempre. Accanto a quei suoi gatti che insegnano a volare a gabbianelle e a quei suoi gatti amici dei topi, a quei suoi vecchi che leggono romanzi d’amore, a quei suoi diari di killer sentimentali, a quelle sue balene che narrano di sé, a quei suoi cani che insegnano la fedeltà ai bambini, a quelle sue lumache che scoprono l’importanza della lentezza. A quel suo Patagonia Express, a quelle sue rose di Atacama. A quel suo ritratto di gruppo con assenza. E con lui, che assente non lo sarà davvero mai.

Grazie per aver contribuito a insegnarci a osare. E a volare.

redazione@varese7press.it

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