VARESE, 23 maggio 2022-Il 23 maggio 1992 è un sabato. Il cielo è grigio, fa caldo. Giovanni Falcone, il magistrato che ha osato sfidare la mafia, arriva con un volo (i dettagli dei suoi movimenti sarebbero dovuti restare segreti) all’aeroporto siciliano di Punta Raisi. Ad attenderlo la sua scorta, con tre auto blindate. Sono le 17.30. Falcone sale sulla Croma bianca e si mette alla guida, come fa spesso. La moglie, Francesca Morvillo, si siede al posto del passeggero. L’autista giudiziario Giuseppe Costanza sul sedile posteriore. L’auto viaggia al centro del convoglio, sull’autostrada A29 che dall’aeroporto conduce a Palermo, quando, vicino allo svincolo di Capaci, Falcone, soprappensiero, sfila dall’accensione il mazzo di chiavi per consegnarlo a Costanza e sostituirlo con il suo. La Croma bianca rallenta.
Sono le 17.58, il mafioso Giovanni Brusca, piazzato sulla collinetta che domina
I sopravvissuti, i soccorritori e gli investigatori che arrivano in seguito si muovono sotto shock, come in una zona di guerra dopo un bombardamento. Le automobili coperte da pietre e detriti. Le immagini di quell’inferno fanno il giro del mondo e mostrano fino a che punto può spingersi la mafia.
Cosa nostra ha dichiarato guerra allo Stato italiano. E lo ha fatto colpendo il magistrato più in vista e in prima fila nella lotta alla mafia, mettendo in atto quello che i boss chiamarono “l’attentatuni”, per chiudere i conti con l’uomo che impersona il simbolo dell’Italia onesta, che non si piega al ricatto e alla violenza mafiosa.
Quando viene organizzato l’attentato di Capaci, Falcone è direttore degli affari penali del ministero della Giustizia: un posto-chiave dal quale vengono promosse le linee dei più importanti provvedimenti antimafia. È anche l’ideatore della DNA, la direzione nazionale antimafia, nella quale, però, non arriverà mai, fermato dal clima ostile che lo circonda sin da quando ha cominciato a combattere la mafia (“Rovina l’economia”, si dice in procura generale). Il suo itinerario è contrassegnato da grandi risultati giudiziari, ma troverà nemici anche tra gli stessi magistrati e tra i politici, che gli sbarreranno il passo e gli impediranno di arrivare ai vertici della magistratura, impedendogli così di rendere la sua azione più incisiva e di mettere fuori gioco i fiancheggiatori dei mafiosi.
Erano “menti raffinatissime” – così le chiamerà – quelle che avevano preparato l’attentato. I suoi nemici nelle istituzioni, intanto, non hanno vergogna a dire che è stato lui a organizzare una messa in scena, funzionale alla sua carriera. Calunnie e ostilità prendono corpo nel “palazzo dei veleni” e lo accompagneranno durante l’esperienza in procura (la divide con Borsellino).(tratto da articolo pubblicato su RSI.CH)